IL NARCISISMO DELLE PICCOLE DIFFERENZE, ANCORA di Silvia Pilati
“Nelle istituzioni appare sempre il narcisismo delle piccole differenze. Stranamente neppure le istituzioni psicanalitiche riescono a sottrarsene”.
Forse non è neppure tanto strano dato che il problema si ripete continuamente; è invece curioso notare che sempre viene riferito agli altri: sono gli altri a soffrire di questo guaio, noi ne siamo immuni, la cosa non ci riguarda. Che adesso chiamiamo nemico colui che fino a qualche tempo fa, prima della scissione, era nostro amico, la dice lunga solo se si ascolta.
Che cosa significa questa locuzione usata da Freud, Narcisismo delle piccole differenze? Che in alcuni momenti: ogni piccola differenza viene colta e ingigantita per salvaguardare il senso della propria separatezza e individualità.
Nel saggio Il tabù della verginità del 1917 Freud parla per la prima volta di piccole differenze e si riferisce alla differenza tra i sessi e ai problemi che suscita. Secondo Freud nelle tribù primitive esiste un tabù fondato sul timore delle donne, causato appunto da piccole differenze anatomiche. Ne consegue un’ostilità che a ben vedere non riguarda solo le tribù primitive e che nell’attuale sembra essersi potenziata. Oltre all’angoscia di castrazione, il maschio teme che l’intimità sessuale possa indebolirlo e privarlo della sua forza.
In Psicologia delle masse e analisi dell’io del 1921 Freud torna a parlare dell’argomento considerandolo un fenomeno generalizzato. Egli nota che ogni rapporto emotivo tra due persone – amicizia, matrimonio, sentimento paterno o filiale – contiene un fondo di ostilità e di avversione che rimane impercettibile solo in virtù della rimozione. Allargando il contesto Freud evidenzia la tendenza di città e paesi confinanti a sviluppare reciproche rivalità.
Che il fenomeno sia generalizzato non giustifica che il problema permanga e continui a dettare le sue regole primitive.
Ne Il Disagio della civiltà del 1929 troviamo un'altra ripresa, nell’ambito di una riflessione sull’aggressività. Il bisogno di mantenere la coesione in una comunità o in un gruppo indurrebbe a spostare l’aggressività e il disprezzo su altri gruppi che presentano piccole differenze. Questo aspetto sembra più ancora di altri riguardare il caso delle istituzioni, comprese quelle psicanalitiche.
Gli psicanalisti cercano, giustamente peraltro, di parlare con i poeti, con gli artisti, con gli scienziati, trovando le affinità che accomunano le diverse “professioni” e con gli psicanalisti di una associazione differente dalla loro non solo non riescono, ma si rifiutano di parlare.
L’ultimo riferimento al narcisismo delle piccole differenze lo troviamo ne L’uomo Mosè e la religione monoteistica, dove Freud si riferisce al popolo ebraico come al paradigma della differenza. Gli ebrei infatti “sono differenti, spesso indefinibilmente differenti, dai popoli nordici, soprattutto, e l’intolleranza delle masse si esprime stranamente di più contro piccole distinzioni che contro differenze fondamentali.” Anche quest’ultimo caso può dar conto della difficoltà a comunicare tra psicanalisti: si pensi alla guerra più o meno fredda tra associazioni lacaniane.
Dunque riportare il narcisismo delle piccole differenze nel campo degli psicanalisti risulta abbastanza facile anche perché la storia della psicanalisi è piena di esempi di questo problema che si presenta macroscopicamente nelle scissioni, una pratica che tra gli psicanalisti ha avuto un grande successo. E, nei decenni, non sono stati fatti grandi progressi in questo senso, anzi. Ancora dice la seconda parte del titolo, riprendendo ironicamente l’encore di Lacan ma anche l’ancora non riconosciuto della coazione a ripetere. Che cosa accomuna questi due ancora? Forse il godimento che li accompagna entrambi. Sarebbe interessante una trasformazione: non più ancora ma nuovamente. Affinché il narcisismo delle piccole differenze diventi davvero materiale d’indagine psicanalitica.
L’iscrizione ad una associazione professionale di psicanalisti (provenienti da associazioni eterogenee) potrebbe permettere di superare il narcisismo delle piccole differenze o almeno potrebbe fornire un’occasione per metterlo in discussione o addirittura all’opera? Forse a partire dal fatto che in una tale associazione non avrebbe molto senso difendersi attraverso le ideologie che albergano nelle associazioni psicanalitiche; forse a partire da una diversa collocazione del maestro e del potere, da un diverso movimento dei transfert; forse a partire nuovamente da una discussione serrata sulla legge dello stato…
Nel libro Dialogo sulla natura del transfert di Michel Gribinski e Josef Ludin la prefazione riprende un articolo di Ludin del 2005. A partire dalla condizione di esilio richiesta dalla pratica della psicanalisi e prendendo come metafora l’ebraismo, l’autore scrive: “La provincializzazione della psicoanalisi (…) ha fatto sì che noi non parliamo oggi di psicoanalisi se non in termini di ripartizioni provinciali: ci sarebbe una psicoanalisi inglese, americana, francese, ecc. Ci sono numerose identità provinciali della psicoanalisi nelle quali essa rischia di perdere il suo carattere fondamentale “extraprovinciale” o “extraterritoriale”. La provincia è l’identità assicurata, sia culturale, sia nevrotica, al limite entrambe, è uno stato d’animo e poi uno stato mentale. La professionalizzazione della psicoanalisi[1] va di pari passo con il suo provincialismo e fa sì che la sua origine esiliata si perda”.
Freud stesso sosteneva che si è innanzitutto psicanalisti e poi francesi, italiani, americani o tedeschi. Questo non vuol dire che dobbiamo lavorare con i colleghi stranieri per evitare di farlo con i nostri connazionali.
Perché la professionalizzazione minerebbe quella caratteristica peculiare della psicanalisi che è l’extraterritorialità? Il problema potrebbe situarsi nel fatto che l’iscrizione ad un registro o albo professionale richiede dei requisiti e la presentazione di un curriculum da parte di ciascuno che chieda di essere iscritto, nonché la presentazione periodica di certificazioni di aggiornamento. Questo attenterebbe alla libertà di formazione degli analisti? Dipende da cosa si intende per libertà. Forse darebbe l’occasione di ragionare ancora una volta su quello che Lacan formula così: un analista si autorizza da sé…
Queste interrogazioni su psicanalisti professionisti o meno partono da una questione personale: mi sono iscritta al Coopi (Coordinamentto degli psicanalisti italiani), associazione professionale di psicanalisti. Fino a poco tempo fa non avevo mai valutato una tale possibilità, anche perché non esisteva un’associazione di questo genere e non esistevano, almeno in maniera così evidente, i problemi che si sono presentati negli ultimi tempi. Si sa, i tempi cambiano….Molti analisti sono contrari alla professionalizzazione della psicanalisi, e lo dimostra il fatto che questa “giovane” associazione, il COOPI appunto, non ha l’attenzione che merita.
Non potendomi iscrivere a nessun albo professionale, ho frequentato qualche anno fa un corso di counseling. Questo mi ha permesso di iscrivermi ad una associazione e a un registro professionale che garantisce alla professione del counselor una completa estraneità rispetto alle professioni di tipo sanitario. Tale iscrizione non è stata senza effetti: mi sentivo comunque a disagio. Fuori dallo studio io pratico come counselor ma in studio? L’iscrizione al COOPI, anche se ha ancora poco valore dal punto di vista legale, mi ha dato respiro. A questo punto mi sono chiesta se gli psicanalisti che sono iscritti all’albo degli psicologi e psicoterapeuti - e sono un numero rilevante - , avvertono un analogo disagio o se le mie sono solo questioni di tipo moralistico. Perché dopo tutto l’albo in questione è un albo professionale. Forse il fatto che tale iscrizione sia considerata “quasi obbligatoria” dopo la legge 56 dell’89 rende la cosa meno problematica? Perché allora all’albo degli psicoterapeuti si e a una associazione professionale di psicanalisti no? Certo l’ordine garantisce di poter operare all’interno della legge. Nello stesso tempo continua a mantenere senza soluzione l’ormai antica e spossante questione: la psicanalisi è o non è una psicoterapia? Quindi: la psicanalisi fa parte delle pratiche sanitarie? Mi sembrano domande alle quale varrebbe la pena di tentare qualche risposta nuova, poiché nuovi sono i tempi in cui tali domande si pongono. Tempi nuovi per quanto riguarda la libertà di psicanalisi, che si fa sempre meno libera e questo è un problema. Ma il problema non riguarda solo la psicanalisi, è un problema etico e politico che richiede l’impegno anche degli psicanalisti in quanto cittadini. La deriva che fa paura e spinge a posizioni di retroguardia non riguarda solo la psicanalisi, purtroppo; è della cultura, della politica, della nostra civiltà, tutta. La psicanalisi è uno degli elementi culturali che può portare avanti un discorso differente da quello imperante, un discorso in cui le domande non abbiano sempre uno specialista con la risposta pronta, in un mondo in cui ciascuno è invitato a prendersi la responsabilità del proprio desiderio e quindi della propria esistenza. Può farlo solo se non si lascia attrarre dalla facilitazione della psicoterapia e della medicina che così come sono strutturate non promuovono l’intelligenza e la “soggettività attiva”. Ed è evidente che le cose stanno andando dalla parte della facilità e della passività, anche se i travestimenti dell’individualismo velano questa realtà. Far vivere e difendere la psicanalisi è un compito civile ed etico.Trovare il modo di distinguerla da altri percorsi, anche attraverso una “professionalizzazione degli psicanalisti”, potrebbe essere una strada, non agevole, non priva di rischi, forse praticabile. Cercare delle alternative alla situazione attuale è comunque necessario perché appunto lo spazio della psicanalisi si fa sempre più stretto, anche a causa della difficoltà di formazione e di trasmissione.
[1] In Italia i lacaniani usano il termine psicanalisi, gli altri usano psicoanalisi…